Festival
SCENARI EUROPEI 2017, Pescara
Andato
in scena dal 21 al 24 settembre presso Spazio Matta e Florian Espace
Chiusura
in grande stile per “Scenari Europei” 2017, festival ideato e
promosso dal Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale,
dedicato alla valorizzazione delle realtà emergenti del panorama
performativo nazionale, mantenendo sempre uno sguardo aperto sui
progetti e le collaborazioni internazionali. L'edizione di quest’anno
ha inteso celebrare il trentennale del Premio Scenario ospitando
tutti i progetti premiati in luglio nella finale di Santarcangelo,
all'interno di un programma denso e calibrato che veniva completato
da un variegato palinsesto di spettacoli, performance, coreografie e
intermezzi musicali. La presenza -tra glia altri- di Cristina Valenti
(Docente di Storia del Nuovo Teatro al Dams di Bologna e Presidente del Premio Scenario), Stefano Cipiciani (Presidente del Centro di Produzione Teatrale Fontemaggiore di Perugia e Vicepresidente
del Premio Scenario) e Pippo Di Marca (autore, regista, codirettore artistico del Florian Metateatro) e Gian Maria
Cervo (docente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e Direttore artistico Festival Quartieri dell'Arte, Viterbo) ha
impreziosito le giornate del festival con momenti di fecondo
dibattito e riflessione, culminati nell'incontro “Generazioni del
Nuovo. Osservatorio del Premio Scenario (1987-2017)”.
GIORNO #1
Giovedì
21 settembre - La parola chiave della prima giornata sembra
essere “energia”. C'è infatti un senso forte di radiosità
che promana dall'interessantissima performance TaiKoKiaT-Ko
del duo italo-giapponese formato da Masako Matsushita
(danzatrice, coreografa) e Mugen Yahiro (musicista,
compositore). La scena presenta inizialmente sparute ed essenziali
connotazioni visive, cariche però di densità iconica che sanno
trasferirci da sole all'interno di un archetipo orientale: i
paraventi, le maschere, le forme vegetali. Ma il quadro d'apertura è
solo il primo di tre tempi che strutturano una performance destinata
a lievitare iperbolicamente sulla traccia dell'incontro tra musica e
danza. Il dato più interessante sta nel fatto che i due linguaggi
non si limitano a coesistere o ad appoggiarsi l'uno sull'altro; la
musica non rimane mai in funzione di “base” per la coreografia:
le linee e le curve possenti dei Taiko – voluminose percussioni
della antica tradizione giapponese – partecipano anche scenicamente
come elementi plastici e mobili di una azione che le cesure di buio
ritagliano di spessore drammaturgico, quasi come i tre atti di una
rappresentazione teatrale tout court. Il silenzio o il sibilo
esile del flauto lasciano posto al protagonismo dei Taiko, prima
sfiorati poi percossi vigorosamente, ma sempre sposati in soluzione
inscindibile con il movimento corporeo della danzatrice, trascinando
lo spettatore in un coinvolgimento notevole.
La
cifra energetica si mantiene anche nello spettacolo successivo, pur
virando verso nuances più pastose e genuine. Parliamo de I
Veryferici, progetto vincitore del Premio Scenario per Ustica
assegnato per il valore civile. Il lavoro del giovane e corposo
collettivo bolognese Shebbab Met Project raccoglie infatti il
tema antico ed attualissimo dell'immigrazione, approcciandolo in
maniera impetuosa, rifuggendo da letture sociologiche troppo sottili.
I nove performer mantengono costantemente la scena quasi a presidiare
un territorio da rivendicare; bruciano senza indugi i paludamenti
della recitazione teatrale di tradizione proponendo quadri anche
brutali sul piano stilistico, mentre in termini di tono la commedia
non cede mai un centimetro di protagonismo al patetismo o alla
compassione, volgendosi volentieri anche nelle forme della
sceneggiata plateale, musicale e parodistica. In ciò gioca la
formazione eterogenea del collettivo, formato da elementi di
estrazione geo-culturale diversa (si va dal Maghreb all'Africa Nera,
dal meridione profondo ai primi lembi di Padania). Ne viene fuori
quasi necessariamente una tessitura che è forse pre-drammaturgica
più che post-drammatica, dove i quadri di insieme lasciano presto lo
spazio allo scorrimento degli assoli, cedendo fatalmente a risacche
di meccanica prevedibilità e a qualche stereotipo. Colpisce la
carica straripante degli interpreti, per un lavoro che si presenta
come tappa iniziale di un viatico che lascia ben sperare.
GIORNO #2
Venerdì
22 settembre – Parola chiave: “tempo”. La seconda giornata
lascia sulla pelle questo senso di possente ciclicità che avvolge le
azioni umane, dalla piccola sfera di una quotidianità ordinaria alla
dimensione epica e quasi mitica dell'azione estrema, dilatata lungo
un numero ampio di giorni. Tali sono le direttrici diametrali
tracciate dai due spettacoli in programma.
La
Cosmopolitan Beauty di Davide Valrosso dipinge
con finezza rara la dimensione di un interno privato che è luogo
fisico oltre che territorio emotivo. Anche in questo caso la danza,
confinata organicamente al di qua ed al di là della parola, pare
raccontare un'esperienza concreta e potenzialmente verbale. Qui, la
solitaria e totalizzante presenza del danzatore in scena conferisce
una maggiore profondità di senso drammaturgico all'azione, che nelle
cesure di buio sembra ancor più realisticamente sovrascrivere i
capitoli diversi di una azione protesa. La biancheria naif che cinge
il corpo del performer mantiene semanticamente a terra le sue
evoluzioni fluide, accese da singulti di possanza improvvisa. Domina
però il senso di fragilità reso dalla ricerca ossessiva, quasi
l'invenzione di equilibri continuamente nuovi, mentre la
frammentazione parcellizzata del gesto fa pensare ad un effetto time
lapse in cui l'azione si sbriciola tra le maglie strette dei
singoli momenti e dei singoli secondi.
Cani
di Vincenzo Manna consolida l'immagine di un interno
attraversato dal flusso del tempo e la sottopone a trasformazioni
massive e raffinate assieme, usando gli strumenti della drammaturgia
più ispirata e consapevole. Come nel miglior Pinter, lo spazio
chiuso proietta lampi ed ombre che riflettono scuotimenti interiori.
In Cani, il Manna “autore” riesce ad attraversare tutte le
circonvoluzioni possibili all'interno dell'abisso umano senza bisogno
di abbandonare la gabbia realistica tramite fughe simbolistiche o
“colpi di teatro”. E' allora il Manna “regista” ad
intervenire con stile e misura spesso geniale, aprendo brecce
effimere nella cornice del quadro verosimile. Sul piano drammaturgico
siamo di fronte ad un trittico mutevole, che per due volte si riduce
ad un confronto diretto tra due soli personaggi, ma in realtà anche
questo non è che un effetto apparente. Il vero congegno di Cani
risponde ai meccanismi del monodramma, che esalta la prova d'attore
di uno sconvolgente Aram Kian (in scena con Daniele Amendola e
Caterina Marino). Il suo personaggio perde via via i connotati
relativi e specifici per incarnare sempre più l'anima caleidoscopica
dell'individuo, dell'essere umano nudo di fronte al mistero
dell'esistenza, della parola, del mondo, di sé medesimo. Lavoro
potentissimo e di altissima caratura teatrale, che compie il primo
miracolo nel restituirci stupiti e coinvolti di fronte ad uno
spettacolo che non appartiene al territorio post-drammatico, senza
con ciò mancare di freschezza innovativa e rilucenza sorprendente.
Diventa quasi irrilevante raccontare che la scena è ambientata in
una imprecisata baita di montagna sulla linea di un imprecisato
confine di guerra, che la discesa nella profondità della psiche
viene incorniciata dalla potenza di una natura che respira e domina
alta. Tutto diviene dettaglio di fronte ad un risultato semplicemente
imperdibile, per il pubblico e per il movimento teatrale tutto.
GIORNO #3
Sabato
22 settembre – Parola chiave: “diversità”. La terza
giornata si apre con Da dove guardi il mondo? di
Valentina Dal Mas, progetto vincitore del Premio Scenario
Infanzia. Il lavoro colpisce subito per la cifra assolutamente
originale con cui l'autrice appronta la materia di uno spettacolo
rivolto ad un pubblico di giovanissimi, tagliando in partenza ogni
forzata forma di pedagogismo. Senza ricorrere a facili infantilismi
(distorsioni vocali o strategie trite di affabulazione), prende forma
la storia di Danya, una bambina speciale che non riesce ad imparare a
scrivere ma che sa sovrascrivere la realtà, dialogando con una serie
di presenze immaginarie. Questi amici invisibili possono inizialmente
apparire come le personificazioni delle paure che bloccano la
protagonista, ma si riveleranno nel prosieguo dell'azione le uniche
guide in grado di condurla allo sviluppo pieno di sé. Nel lavoro
teatrale ciò che guadagna prepotente priorità è la presenza
tangibile con cui vengono
tradotti i singoli segni, corporei o fantasmatici che siano.
Valentina Dal Mas mostra su questo punto i gradi della maturità
artistica, sfruttando a pieno la sua formazione di danzatrice,
inscritta definitamente nella completezza performativa del suo
linguaggio: le sequenze di danza vera e propria vanno a tornire le
espressioni di liberazione esplosiva della piccola protagonista, ma
il lavoro corporeo resta disseminato lungo l'intera azione, andando a
strutturare le singole pose ed i singoli movimenti con risultati
densi, criptici, decisamente insoliti ed innovativi per la tradizione
del teatro per l'infanzia.
Coordinatissimo
lavoro d'ensemble è invece Un Eschimese in Amazzonia
del gruppo milanese The Baby Walk, progetto vincitore (ex
equo) del Premio Scenario 2017. In realtà si tratta di un lavoro in
cui la precisione dei meccanismi collettivi viene intenzionalmente
resa più ardita da una struttura dicotomica, che contrappone in
scena un coro di quattro elementi (Greta Cappelletti, Laura Dondi,
Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli) con la presenza
individuale di Liv Ferracchiati in proscenio. Tutti in uniforme
sportiva coordinata loro, coperta lei in un anonimo nero suburbano,
sorta di burka laico occidentale composto da felpa con
cappuccio più pantaloni a sigaretta, spezzato in un accenno di
rediviva assertività dal bianco delle snickers. Isolata in
proscenio come un brutto anatroccolo post-moderno, Liv Ferracchiati
(ideatrice del progetto ed autrice del testo) non è la corifea che
guida gli scambi con il gruppo dei coreuti, così come le quattro
presenze alle sue spalle sono ben altro rispetto al riferimento anche
parodistico del coro classico. La loro ostentata, prorompente
presenza fisica si afferma in evoluzioni ginniche connotate da una
stucchevole letizia dal sentore dopato, inciampando con noncuranza
sulla marginalità malferma di quell'altro strano essere in abiti
scuri. Questa contesa per la leadership nella comunicazione con il
pubblico è la dinamica drammaturgica su cui viene sviluppato il tema
dello spettacolo: l'ambiguità della figura del transgender in
una società apparentemente emancipata, ma forse solo velocizzata.
Allo stesso modo il conflitto tra il linguaggio formalizzato del coro
e quello informale dell'autrice innesca soluzioni gustose.
Lavoro
di altissimo ritmo condito da humor prorompente, intelligente
e colto, frenato solo da una progettualità tematica fin “troppo”
perfetta che lo conduce nel solco ormai non più nuovo e non più
fresco di un teatro post-drammatico rigiocato in chiave
cabarettistica.
GIORNO #4
Domenica
24 settembre - “Oltre” è la parola prescelta per riassumere
la giornata conclusiva di Scenari Europei 2017. Con Più nel
Bosco non andremo,
i Dehors/Audela si misurano con le suggestioni infinite
proposte da un testo misterico come quello della Alice di
Lewis Carroll. Ciò comporta innanzi tutto una più massiccia
presenza della parola in questa performance rispetto ai lavori
precedenti della formazione romana, benché l'interesse principale
pare rivolto alla manipolazione dei significanti, senza mai sfiorare
le corde della narrazione. La collaborazione con Simone Pappalardo
orienta il lavoro lungo le direttrici della sonorità pura e
suggestiva, e la presenza in scena del musicista al comando della sua
consolle elettronica sembra dichiarare l'importanza
programmatica di una linea registica e concettuale. Per il resto la
scena, percorsa da Elisa Turco Liveri, è abitata da tre zone
sceniche dove si accumulano strumenti tecnici ed estetici, che
alludono ad alambicchi alchemici come ad elementi silvani, trovando
una sintesi o una chiave d'uscita nella superficie immancabile dello
specchio. L'azione interpola momenti di coreografia, di movimento e
di parola, ora dentro ora fuori dal cono dell'amplificazione
microfonica, alla ricerca degli strati più umbratili, inquieti e
meno favolistici del soggetto di partenza. La tessitura sonora
sembra tuttavia creare qualche problema di temporalità, indugiando
in dilatazioni eccessive che non vengono sempre riempite
scenicamente, così come la semi-oscurità dominante -più che
accendere la suggestione dell'incubo- rimane nella sua consistenza
strumentale, come condizione necessaria per la proiezione video sullo
schermo di fondo, dove l'immagine di un bosco viene alterata e mossa
con ossessività estenuante e piuttosto sterile. Scorre via disattesa
la “promessa” di una cifra stilistica seducente.
Il
desiderio di andare oltre lo schermo della realtà, ma anche della
rappresentazione, torna in Bau #2 di
Barbara Berti, l'altro progetto vincitore del
Premio Scenario 2017. Qui si ha la dimostrazione più plastica di
come un lavoro fondamentalmente astratto possa realmente avvolgere il
pubblico e carpirne tutti i canali percettivi. La scena nella sua
neutralità irradia da subito una luminosità magnetica e profonda,
lontana dalle palpitazioni del ritmo. Un tappeto bianco copre
l'intera superficie del palcoscenico, su cui posa raccolta la figura
minuta dell'interprete avvolta in una tuta blu. L'azione che si
sviluppa immediatamente è una fusione totale di movimento corporeo e
parola, che si riversano l'uno nell'altra in termini di tempo e di
tono. Se questo è il sentiero percorso a ragione da tanto teatro
contemporaneo e da tanti artisti di performance, c'è da dire che
quello proposto da Barbara Berti appare il risultato più preciso e
convincente. Lo spettatore è posto davanti ad un linguaggio
completamente nuovo; si ha come l'impressione di vivere un'esperienza
straniante e personalissima più che di assistere ad uno spettacolo.
La performance di Barbara Berti crea con grazia non solo esteriore
e non solo estetica un vortice percettivo che non richiama la
semplice attenzione del pubblico ma la sua naturale proiezione verso
il benessere, e solo tramite questa ne trascina dietro la
partecipazione integrale. L'azione non è fatta di movimento e
parola, bensì da un flusso, unitario e costante, come acqua che
scorre o come un filo di seta che si dipana. Il ritmo del parlato
segue la cadenza dilatata dettata dal corpo, mentre il tono vocale
resta immutato e serafico anche nelle evoluzioni fisiche più ardite
ed impegnative. E la testualità tende a descrivere in chiave
metateatrale la condizione psico-fisica della performer nell'atto di
compiere ogni singola variazione, in una sorta di stream of
consciousness fisicizzato, ma risulta difficile seguire con
precisione esclusiva il senso delle parole, non perché il messaggio
sia criptico o perché la performance si faccia distante con il
passare dei minuti, bensì perché per la prima volta nella nostra
esperienza di spettatori il messaggio verbale che recepiamo fa
organicamente parte di un linguaggio più complessivo, benché mai
complesso, da recepire con la pelle ed i pori oltre che con udito ed
occhi. Raffinatissimo, superlativo!
Paolo
Verlengia
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